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c/o careof

Organizzazione non profit per l'arte contemporanea

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Sabrina Mezzaqui e Sabrina Torelli + My best fried? "My self"

A cura di Alessandra Galletta

10.05.1998 - 31.05.1998

Sabrina Mezzaqui e Sabrina Torelli con coraggio e persuasione hanno attirato l’arte nel gorgo dei gesti ripetuti, e l’hanno obbligata a guardare la varietà che essi sottendono.
Anche il loro nome si ripete, una coincidenza che non sarebbe sfuggita a Carl Gustav Jung e forse anche lui, in Sabrine, avrebbe letto un imprevisto della storia che per millenni ha diviso uomini e donne, arte e artigianato.

Nel lavoro di Sabrina Torelli c’è qualcosa che ricorda la scoria, il resto che cade fuori dalla rete visiva, la dispersione quotidiana dei microframmenti percettivi. Appunto resti informi che devono essere sistemati in un segno nitido, visibile, sintetico per poterli registrare. Invece Sabrina T. sembra voler dare consistenza proprio a questi segmenti liquidi, immateriali che fanno da sfondo alle intuizioni, ai sentimenti, alle visioni.

La voce, il suono corporeo o tecnico sono la “matita” con cui Sabrina T. plasma le sue presenze sensoriali tridimensionali. I “resti” delle cuffiette per auricolari, cioè i piccoli dischi che le compongono, si intrecciano alla trama impalpabile dei tulle con cui ha costruito una tenda dove tutto traspare, dove la fibra del canto si allea a quella della luce per sostenere le pareti. L’odore dell’elettricità fa da controcanto a un autoritratto proiettato sottosopra, in un micro monitor, quasi un simbolo della misteriosa unità e completezza di ognuna dei milioni di cellule di cu in un micro monitor, quasi un simbolo della misteriosa unità e completezza di ognuna dei milioni di cellule di cui si compone l’organismo.

Nel lavoro di Sabrina Mezzaqui c’è qualcosa di inappagato, non riguarda una mancanza, ma l’ambiguo piacere che lega il rito sommerso delle proprie ripetizioni al desiderio di fermarle in una forma “irripetibile”. E’ molto simile alla scrittura che ha bisogno di un continuo andirivieni tra la mente che la pensa, la mano che la esegue e l’orecchio che ne ascolta il ritmo. Il senso di inappagamento non è sinonimo di insoddisfazione, ma di un sogno positivo che lascia sempre aperta la possibilità di sognare ancora.

Così, con centinaia di cartoline di Bologna intagliate e applicate alle finestre Sabrina M. crea una “vetrata medievale”, oppure il sipario imprevisto di una città di notte, oppure altro. Le immagini si affacciano a questa finestra esattamente come a quella dei suoi sogni, trascritti in fogli trasparenti.
La ripetizione balla davanti agli occhi, fa andare insieme la vista, e mostra l’ambiguità senza appagamento delle immagini e dei gesti che compiamo o sognamo.

Francesca Pasini

Nella sala video Careof presenta:
l’ultimo lavoro di Gunther Solo: My Best Friend? "My Self"

A cura di Alessandra Galletta