Giuseppe Berretti + Marco Bertasi
03.03 - 27.03.1991
Sotto il segno del silfo
Uno dei maggiori pregiudizi, uno dei più pericolosi fraintendimenti, ed anche dei più invadenti, che tiene il discorso sulle arti, è quello di pensare al sapere e alla conoscenza come a un processo d'accumulazione, persino di fagocitazione, così che l'oggetto, infine, risulta completamente saturo, trasbordante in ogni sua parte.
Troppo spesso si trascura, quando non s'ignora totalmente, quel modo di intendere il sapere come processo in togliere, come sentimento del dimenticare, come necessità fisiologica del pensiero di approdare ad una sorta di grado zero da cui attingere nuova vitalità; ebbene, io credo che il lavoro di Giuseppe Beretti abbia preso le mosse, raccogliendo, ogni volta, meditate, motivate ispirazioni, da questo "fare bianco", da un ricominciare che non è mai solo ed assolutamente se stesso, ma che è, il più delle volte, dalle parti di "qualcosa".
Così egli ha fatto ritorno al bianco del foglio, ma non per riflettervi concettualità o tautologici raffreddamenti, com'era stato per certe esperienze degli anni sessanta e settanta, invece per cercarsi "da una qualche parte" una fisica sensazione di indeterminatezza. E rimanervi sospeso.
Sono leggerissimi sfioramenti, impercettibili tratti di colore, sfumate lievitazioni di un'apparizione che vuole starsene altrove, quasi timorosa della propria presenza.
Un sentore, un odore, un soffio più lieve del chiarore, più tenue della penombra: tale si fa la pittura per Beretti, posa posata, depositata in volo nell'ora giusta in cui ritrarla, e misurata, anche per esile segno d'architettura: adombra un saluto e, come desiderosa, indugia, si lascia trasparire, distanza vulnerabile da ogni traccia, costruita dimora, improbabile ordito, orlo di luce, piuma di colore addensata e rarefatta (e fatta rara) .
Il luogo, questo luogo, orientato senza limite, scontornato dal pensiero, è barlume e palpebra, è macchia dello sguardo, rassomiglianza mancante in effetto d'orizzonte, lacuna d'infinito.
Per questo credo che Le Sylphe, uno dei testi di Valery più intensi, a suo modo folgorante, intrattenga con la pittura di Beretti più d'una sintonia.
"Ni vu ni connu / je suis le parfum / vivant et defunt / dans le vent venu! // Ni vu ni connu,/hasrd ou genie:/ a peine venu / la tache est finie! / Ni lu ni compris? /Aux meilleurs esprits / que d'erreurs promises! / Ni vu ni connu, / le temps d'un sein nu / entre deux chemises!.
C'è la brevità del fraseggio e dell'illuminazione... E ci sono lampi d'ironia e di sensualità, tara apparenze e apparizioni..
Quale velo strappare? Quale volo spiccare?
Mario Bertoni
Ottobre 1989