20 December 2024 07:51:37
closed
c/o careof

Organizzazione non profit per l'arte contemporanea

c/o careof

(E)MERGING VOICES • Counter-narratives of post-colonial and feminist display

A cura di
Elvira Vannini

In collaborazione con le studentesse e gli studenti del II anno del Biennio in Arti visive e studi curatoriali, NABA - Nuova Accademia di Belle Arti

10.07.2019, ore 17.00

Rappresentare è controllare i mezzi discorsivi che subordinano l’oggetto del sapere a un’economia concettuale dichiarata superiore – 1998, Nelly Richard

I paesi non occidentali, pur combattendo con i processi di modernizzazione, sono esclusi dal rivendicare il modernismo. [...] D’altra parte, poi, è l’ideologia specificamente borghese del modernismo che fa supporre una nobile universalità mentre impone un insieme eurocentrico (e imperialista) di criteri culturali nel resto del mondo. [...] Inoltre lo stesso modello lineare assume altre figure geometriche come il centro e la periferia. Questo camuffa il crudo progressismo del modello lineare. Il (presunto) ritardo non è espresso in quanto tale, ma al suo posto emergono questioni di marginalità (gruppi minori/minoranze) – 1998, Geeta Kapur

Che ruolo occupano - e hanno occupato - le esposizioni nelle politiche di rappresentazione transculturale? Come decolonizzare le soggettività dominate e marginalizzate e, insieme, reinventare funzioni, linguaggi e paradigmi espositivi per ribaltare la prospettiva? In che modo le varie linee di oppressione (classe, genere e razza) si intersecano nel campo dell’arte e nella costruzione del simbolico?
Le categorie del centro e dei margini, secondo Nelly Richard, possono essere ridefinite e ci obbligano a rompere i rapporti tra cultura e istituzioni: non più i saperi egemonici e le strutture dominanti al centro del potere e quelli periferici ai bordi, ma occorre ripensare un concetto-metafora che funga da vettore di decentramento di questi stessi binarismi: centro/periferia; maschile/femminile; dominazione/subordinazione, egemonia/subalternità.

(E)merging voices. Counter-narratives of post-colonial and feminist display è un laboratorio teorico che mira a indagare e decostruire modelli di archiviazione, storiografia ed esposizione attraverso lo studio di mostre storiche che hanno sviluppato narrative post coloniali, femministe e trans-femministe.

Per «rompere il salvadanaio scrive Teresa de Lauretis - in cui abbiamo messo al sicuro i nostri schemi e riconfigurare l’incertezza in tutte le applicazioni teoriche, a partire dal primato del “culturale” bisogna esporsi al rischio». O to Talk Back , “ribattere”, con un’idea di movimento dall’oggetto al soggetto, una pluralità di voci e counter-narratives che abbattono i sistemi di diseguaglianza tipici dei discorsi e delle tecniche di dominazione patriarcale e colonialista.
Decolonizzare non come momento temporale, ma di coesistenza di opzioni, soluzioni e punti di vista oltre i dualismi (dominato/dominante, dentro/fuori, visibilità/invisibilità) in favore della costruzione di una relazione tra una struttura socio-economica di matrice patriarcale (neo-liberista e coloniale) e le dinamiche sociali di dominio/discriminazione di soggettività eccedenti. Per disattivare le codificazioni dominanti, a partire dallo sguardo, è necessario da una parte portare al centro del potere la critica (Foucault), in quanto strumento capace di resistere localmente alle gerarchie dei sistemi che impongono le regole del visibile. Dall’altra, sgomberare il campo a livello concettuale da una visione separatista e conflittuale tra i generi e dare forza, a partire dallo spazio espositivo, a una cultura capace di superare asimmetrie e comportamenti “omologici ”. Rimettiamo al centro del dibattito la possibilità di riorganizzare i sistemi sociali secondo una logica non escludente per aprire nuovi scenari inclusivi per tutte le identità.

(E)merging voices, momento conclusivo del corso teorico di Allestimento II, tenuto da Elvira Vannini con il 2^ anno del Biennio in Arti visive e studi curatoriali, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, si svolgerà negli spazi di C/O Careof ospitando lectures, performance e discussioni aperte al pubblico.

Tra le esposizioni analizzate: The Exhibit of American Negroes 1900, curata da W.E.B. Du Bois, la Mostra dell’attrezzatura Coloniale, alla VII Triennale di Milano, 1940; Dispossession dell’indiana Geeta Kapur, alla 1st Johannesburg Biennale, 1995 dopo la fine dell’Apartheid. Aren‘t We All Cannibals? (24ima Biennale di San Paolo). Una questione di priorità: de-patriarcalizzare per decolonizzare (Principio Potosì). Del 2007 sia WACK! Art and the feminist revolution che Global Feminism: New Directions in Contemporary Art; Gender Check. Femininity and Masculinity in the Art of Eastern Europe, la questione Women without Shadow, di Ruth Noack e Documenta 14.

Elenco mostre analizzate

Beyond the Colorline
The Exhibit of American Negroes 1900
di Luise von Nobbe

Nel 1899 il sociologo W.E.B. Du Bois (*1868 Great Barrington, Massachusetts) viene invitato a partecipare alla progettazione della mostra The Georgia Negro in occasione dell’Exposition Universelle a Parigi nel 1900. La decisione di coinvolgere attivamente gli studenti afroamericani dell’Università di Atlanta, offriva l’opportunità di rendere visibile la propria comunità attraverso una forma di rappresentazione adeguata alle loro esigenze contemporanee - indipendentemente dal dominante sguardo bianco. Du Bois crea non solo un’immagine alternativa della popolazione afroamericana della Georgia in Europa ma introduce anche un nuovo approccio alla produzione di mostre: cercando di essere scientificamente corretto (metodo empirico), lavora direttamente con i (s)oggetti del suo interesse d’indagine. Lui stesso incarna la figura del “Black Dandy”, un uomo educato, nonconformista e queer con idee rivoluzionarie su razza, gender, sessualità e nazione.

Mostra dell’attrezzatura Coloniale
VII Triennale di Milano, 1940
di Tommaso Pagani

È un mondo, quello dell’Occidente, ben lungi dall’essersi affrancato dalle proprie colpe storiche. E nuovamente nega l’umanità all’Altro, mentre lo respinge, lo stigmatizza e fa di tutto per segregarlo al di là del confine. Il dispositivo espositivo ha costituito uno dei livelli più alti di auto-rappresentazione del fascismo: nell’aprile-giugno 1940 alla Mostra dell’attrezzatura coloniale, sezione della VII Triennale di Milano non vennero esposti documenti, o immagini provenienti dalle colonie e neppure rappresentanti delle terre d’oltremare, ma solo esempi di arti decorative e ambienti vagamente evocativi, riferiti esclusivamente allo stile di vita dei colonizzatori occidentali. Se il programma della politica coloniale fascista è già reso esplicito, occorre solamente consolidare il consenso e rimarcare principi già noti al pubblico. Da un’altra prospettiva si può notare come, nonostante l’ideologia sempre più aggressiva ai danni dell’Altro, che trova la sua acme nelle leggi razziali del 1938, le modalità rappresentative si fanno più sottili, più subdole ma allo stesso tempo più influenti.

1st Johannesburg Biennale 1995
di Laura Colantonio, Cristina Gozzini, Chiara Lupi

Perché una Biennale a Johannesburg? E perché immediatamente dopo il collasso dell’Apartheid? Nel 1995 si tenne la prima Biennale del Sud Africa a cura di Christopher Till e Lorna Ferguson. L’evento coincise con l’importante traguardo storico della fine dell’Apartheid, e si propose come spazio di dialogo tra le comunità fino a quel momento recluse in un silenzio e un’emarginazione forzata. Tra i tentativi di celebrazione delle diversità da un lato e di ricostruzione di un sistema culturale multi-razziale e multi-etnico dall’altro, emerge Dispossession a cura dell’indiana Geeta Kapur e Shireen Gandhy, una mostra di sole donne che operano intenzionalmente sulle fratture, le assenze, gli spazi interstiziali dello spazio sociale. Oltre una retorica dell’integrazione, la Biennale del 1995 celebrò l’apertura di confini invisibili e si inserì nella storia del Sud Africa come segnale del nuovo regime democratico.

Aren‘t We All Cannibals?
Di Valentina Avanzini, Ivna Lameira Martyres, Rebeca Yun Hee Pak

La 24esima Biennale di San Paolo, a cura di Paulo Herkenhoff, sancisce una frattura profonda rispetto alle edizioni precedenti, maggiormente concentrate su una frenetica rincorsa dei progressi del paradigma occidentale. Imperniata su un Nucleo Historico, che riprende il concetto di antropofagia sia dal punto di vista antropologico che culturale (come descritto dal Manifesto dell’Antropofagia del poeta Oswald De Andrade, 1928), la Biennale si prefiggeva lo scopo dichiaratamente politico di decostruire il paradigma culturale monolitico di matrice coloniale-messianica. L’operazione si spinge oltre un semplice rifiuto dell’eurocentrismo, creando un impianto concettuale e soprattutto visivo che sia intrinsecamente altro rispetto all’etnocentrismo e logocentrismo occidentale. Risonanze, dialoghi e contaminazioni diventano il criterio di costruzione di discorsi, parallelismi (anche marcatamente anacronistici) e storie di cannibalismi. Con una pratica curatoriale-autoriale e consapevolmente invadente (che gli costò molte critiche) Hirkenhoff rifiuta una visione hegeliano-kantiana della Storia e della Storia dell’Arte, sancendo la necessità di una declinazione sempre plurale, sempre ibrida della produzione di conoscenza.

Una questione di priorità: de-patriarcalizzare per decolonizzare
di Andrea Alfano, Marco Antelmi, Francesca Consonni

Un turista indiscreto osserva un minatore indifferente; il primo contempla morbosamente l’altro, il secondo sa che non verrà mai riconosciuto come persona. Entrambi formano un parallelismo schizofrenico capace di divedere in due lo spazio, senza che ci sia distanza che li separi. Siamo a Potosì, la città boliviana dell’Argento, capitale del colonialismo. Ma cosa accomuna il turista e il minatore? Sono entrambi maschi. Troviamo risposta nella chiave di lettura di Maria Galindo della mostra Principio Potosì: c’è bisogno di fare emergere la relazione che sussiste tra colonialismo e patriarcato, perché gli intellettuali indigeni che esaltano la resistenza riscrivono la mascolinizzazione della storia. Secondo la teorica, la subordinazione della donna indigena deve passare attraverso l’alleanza con l’altra colonizzatrice, la disobbedienza attraverso “les bastardillas”, coloro che non appartengono a nessuna delle due fazioni. La necessità non risiede quindi nella decolonizzazione, ma nella decolonizzazione fallica, in special modo se il ministro indigeno per la decolonizzazione in Colombia è, ancora una volta, maschio.

WACK! Art and the feminist revolution
di Letizia Mari, Federica Zanoni, Gao Man, Geng Pan, Martina Matteucci, Simona Cuttitta, Chen Zihan, Dai Qianxun

Peggy Phelan definisce il femminismo come la convinzione che il genere sia stato e continui ad essere una categoria fondamentale per l’organizzazione di una cultura fondata su una visione fallo-centrica. Nel 2007, al MOCA di Los Angeles, si è tenuta la prima edizione della mostra itinerante WACK! Art and the Feminist Revolution, curata da Cornelia Butler, la quale sottolinea l’importanza di “non guardare solo come appare l’arte femminista ma capire in che modo le femministe guardano l’arte”. L’obiettivo è di ripensare l’estetica e il canone femminile secondo una suddivisione tematica che non segue le logiche geografiche e cronologiche legate alla biografia delle artiste. La mostra spinge le partecipanti a lavorare in stretto contatto secondo un modello orizzontale di scambio creativo; un processo che mette in relazione artiste affermate ed emergenti per creare nuove narrazioni.

Global Feminism: New Directions in Contemporary Art
di Simona Cioce, Camilla Alberti, Benedetta Dosa, Clarissa Falco

Era il 1970 quando Linda Nochlin scriveva Why Have There Been No Great Women Artists? Ponendo al centro del dibattito storico-artistico la necessità di una radicale decostruzione della narrazione culturale maschile e occidentale. La formulazione di una risposta si è allineata con i moti di rivendicazione dei diritti femministi e postcoloniali che circolavano rapidamente trascendendo le singole nazioni. É nel 2007 che la stessa Linda Nochlin è curatrice insieme a Maura Reilly di Global Feminism, la prima mostra internazionale totalmente dedicata al movimento femminista al Brooklyn Museum di New York. Personificazione della nuova fase transnazionale della pratica femminista, la mostra guarda specificatamente oltre i confini eurocentrici e americani per sfidare un sistema artistico colonialista.

Gender Check. Femininity and Masculinity in the Art of Eastern Europe
di Gilda Li Rosi, Luo Wei, Wu Tianrou, Amelia, Liu Xuan

Con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la fine dei regimi socialisti, sorsero nuove sfide dovute al crescente nazionalismo e dalle influenze neoliberiste da ovest. Le libertà appena nate camminarono in simbiosi con i vincoli di ruolo neoconservatori. La mostra Gender Check presentata a vent’anni della caduta del muro, non vuole essere una rassegna dedicata solo al ruolo del genere nell’Europa dell’Est, ma l'esposizione si concentra sulla trasformazione di un intero territorio in una zona che funziona come (nuovo) confine. I confini non sono esclusivamente margini geografici, bordi territoriali o muri, ma sono istituzioni sociali complesse. La mostra presenta un processo di genderizzazione come zonizzazione.

Women without Shadow, Ruth Noack e Documenta 12
di Yang Dingxuan, Shao Lyufan

Nella costruzione dell’identità nazionale, l’esclusione degli altri gioca un ruolo cruciale. Usando tattiche simili, la depoliticizzazione delle prime edizioni di documenta è avvenuta attraverso l’esclusione di tutti quegli elementi che avrebbero potuto turbare la fiaba del modernismo. Il processo di revisione della storia della modernità, dopo l’operazione di disturbo delle precedenti edizioni dirette da una donna e da un curatore non europeo è stato uno degli imperativi del processo di selezione della coppia austriaca. Il compito dell’analisi critica è anche quello di rivelare la pratica delle esclusioni che, a diversi livelli, sono ancora in atto nell’ambito della produzione espositiva di documenta. Le tracce sono lì per disturbare le narrazioni dominanti (maschili) e per rivelare la pratica continua della politica di esclusione. Uno dei fatti più sorprendenti è stata la posizione di Ruth Noack che ha affermato di essere femminista, ma si è lasciata prevaricare dalla regola dominante abbandonando il suo potere.

My Body doesn’t exist
di Jang Wanyi, Miao Zihyu, Wang Menjing, Zhao Siyu

Paul B. Preciado suggerisce con Documenta 14: “Come ci si sente ad essere un problema?” La nostra società è piena di problemi; problemi di democrazia, anti-colonialismo, indigeni, ecologia, femminismo, liberazione sessuale, ecc. A partire da alcune di queste questioni, discuteremo del transgenderismo: come le voci eterogenee, presentate attraverso un collage video, possono agire contro il patriarcato occidentale e la dicotomia maschile/femminile. Il processo di continua trasformazione e formazione, come parte dell’evoluzione delle soggettività e della società, si dissolve attraverso le identità marginali e gli aspetti della disuguaglianza di genere.

Due facce della stessa moneta. Matteo Messina in conversazione con Edson Luli

Come vengono metabolizzate le macro tendenze dell’arte dal mercato? E soprattutto, in quale modo questo le limita? L’esperienza di Edson Luli artista, contemporaneamente nello staff e rappresentato da Prometeo Gallery, rappresenta il punto di partenza per delineare quali sono i limiti del sistema dell’arte e come questi vengano costantemente abbattuti. In conversazione con Matteo Messina verrà indagato come il suo lavoro e le sue opere si influenzino a vicenda, fornendo uno spaccato reale e diretto del contesto che ci circonda.

Why don’t you show your anger?
performance di Yiyan Liang, Wu Chenan, Wang Jingqi

Nella società patriarcale cinese del XVII secolo le donne non avevano nessun accesso all’educazione. Questo però non ha eliminato l’urgenza di esprimersi, portando alla creazione del sistema comunicativo detto Nü Shu (女书), Scrittura delle Donne. Non è una scrittura ideografica, ma fonetica basata sulla trascrizione del dialetto di Jiangyong nella regione di Hunan. I grafemi sono lunghi e stretti, simili alle iscrizioni cinesi su bronzo risalenti alla dinastia Zhou. All’inizio, le donne si servivano per scrivere di piccoli rami appositamente affilati e un inchiostro creato diluendo il carbone della cucina nell’acqua. Come supporto si utilizzavano vestiti, ventagli, cinture, fazzoletti e orli ricamati, elementi fondamentali della vita domestica a cui erano relegate. La direzione della scrittura è verticale perché inizialmente i segni erano tracciati sulle cosce nei rari momenti di pausa dagli obblighi domestici. La Scrittura delle Donne si configura quindi come forma resistenziale, i cui contenuti non riguardano l’amore e la vita di tutti i giorni, ma il bisogno di liberarsi dall’oppressione. La lettura di questi testi aveva un carattere performativo. Veniva eseguita durante la Festa della Corrida di Jiangyong: le donne si sedevano in cerchio, cantavano e tramandavano alle giovani generazioni la loro scrittura. Questo atto di creazione si apre alla comunità, invitando alla partecipazione chiunque non si senta rappresentato dal linguaggio dominante.